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S/S/P
13/02/2020

S/S/P

La provincia si nasconde dietro i tradimenti della bellezza
delle cose e dei piaceri degli occhi. Le valli verdi, i bacini
lacustri e fluviali, le pianure e gli andirivieni collinari
con i loro costumi, le feste e le fiere, i santi e le madonne,
hanno ceduto il passo a una commistione che vede segni e
segnali confondersi tra i territori periferici e rurali,
volgarizzarsi – che come vuole la storia, è traduzione in
lingue note – e mescolarsi nelle immagini contraddittorie che
vestono la provincia.
Perché per quanto i silenzi e il frinire delle cicale in
prossimità delle discariche o dei distretti logistici possano
dare scabre rimembranze di quiete e sollazzi vari,
la provincia vive da sempre il suo storico bovarismo: rimanere
dove si è sognando gli al di là del territorio, oltre al
paesaggio naturale e mentale, e riprodurre nei suoi spazi i
sogni e gli incubi che connotano il sempiterno “isolamento”
di questi luoghi.
Così che gli orizzonti dei campi, delle colline, dei fiumi e
dei litorali si fanno confine, assieme alle soglie di casa
e agli asfalti arricciati delle statali che tagliano le
campiture del paesaggio. Il territorio reale e mentale ripiega
su sé stesso, si stringe e si reinventa, sogna di sé.
Lì dove lo sguardo si posa si ritrovano le ossessioni che
abitano la provincia reale, quella marginalizzata e riscritta
dal persistere del racconto bucolico del rurale e del turismo.
Questi territori che rientrano sotto la definizione
di “provincia” sono tante cose insieme, oscillano tra
claustrofobia e claustrofilia, sono territori plurali.
Sovraccarico di segni e segnali, l’immaginario “provinciale”
è un calderone e ribolle di giovinetti protopascoliniani e
lavoratori bianciardiani, di violenza e ludopatie croniche.
È una visione caleidoscopica che se vogliamo può ricordare
i miraggi della calura sulle provinciali, quando l’asfalto
beccheggia come i laghi al passaggio dei traghetti, sono
gli adesivi sulle carene delle moto, i graffiti e le scritte
inflazionate dei partiti e dei movimenti locali sui lunghi muri
derelitti dei distretti logistici, sono i volti posterizzati,
circensi e itineranti che raffigurano mondine tra leoni esotici
e pistoleri da Far West, sono le bandiere e le banderuole che
sventolano su barche e trattori in processione nei paesi di
vaga memoria agricola, o le scomposte file di barche e boe tra
laghi e fiumi che trasportano vecchie effigi pesanti di santi malfatti a sei dita.
Roberto Alfano e Oliviero Fiorenzi hanno pratiche che si
incontrano nei tragitti e in queste aree. Il graffito, per
cominciare, è stato luogo comune in cui gli artisti hanno
elaborato quel rapporto tra pittura e supporto, il decantato
display, sul quale i segni andavano a braccetto con il
paesaggio ed erano lasciati al tempo che passa tra muri,
vetri, fabbriche abbandonate e qualunque superficie potesse
costruire una ricorrenza con il paesaggio.
È da questo terreno comune che gli artisti hanno differenziato
le proprie pratiche.
Roberto Alfano ha attinto alle atmosfere dell’immaginario
della pianura, alle ridondanze che tra i campi snervavano e
lentamente attecchivano in chi da bimbo le percorreva. Parliamo
tanto dell’iniziale immaginario pop sul quale l’artista si è
concentrato per anni, quanto sulle ridondanze che innervavano
la provincia: dalla lega alle nutrie al “classicismo” dei
capannoni spogli e via dicendo. Il lavoro di Roberto è quello
del segno ossessivo, del ricorrere dell’esperienza e di ciò
che lo spazio apparentemente chiuso della provincia, quello
stretto tra i campi e le nebbie, lascia all’immaginazione.
Nello sguardo che si blocca di lì a qualche metro è facile
perdere la razionalità e farsi ingannare, e la pratica di
Roberto è quella che riferisce allo spazio interiore che
occupano i simboli, le figure e i caratteri dell’immaginario.
I ricordi che si sedimentano e sbiadiscono ma anche i miraggi
che tali spazi producono, dove rivivono i giocattoli e gli
atteggiamenti infantili, i sogni e i deliri che sono poi un
miscuglio di guerre e classicismi, arcobaleni e carri armati.
Il lavoro di Oliviero Fiorenzi parte invece dal territorio
reale, facendo propria quell’azione ambientale, climatica
e temporale, che lo spazio aperto agisce sulle superfici.
L’aria fende, smuove e fa rumore, e nella foschia al limitare
dell’orizzonte ciò che serve sono segnali. La sua ricerca
si concentra infatti sulla relazione tra gesto pittorico e
segnale, una pratica che restituisce il paesaggio come segno
visivo, come il parlottare di una lingua che si dipinge in
tutto ciò che all’occhio si consente: boe, torrette, moquette,
segnavento; per Oliviero il territorio è supporto e struttura
del linguaggio. È un retaggio dell’orientamento, della
passeggiata, ma anche più cinicamente della proprietà, delle
bandiere, di cartelli e cartelloni. Così che il suo lavoro
è quello di fare paesaggio, di fornire gli strumenti per
leggere lo spazio nella ricorrenza del segno pittorico che il
territorio porta necessariamente con sé, segnali che diventano
autonomi assieme al rumore del vento e allo scompiglio che
fanno lo scrosciare delle acque e dei fili d’erba.

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