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Erik Foss

 

Erik Foss

Immagina questo:
attraverso la fotocamera, il pennello o con qualsiasi altra tecnica mista a sua disposizione, a Erik Foss piace riprendere e creare immagini.

La sua passione costante per il paesaggio visivo, per tutto ciò che è pittorico e tutte le perversità e i problemi che riguardano l’atto di guardare, rappresentano l’unico rapporto duraturo per un solitario come lui; una relazione basata su una costante infedeltà, in quanto non appena egli si innamora di un’opera, cade nella tentazione di dar vita a nuove idee. È difficile immaginare come ogni libro possa contenere questa condotta peripatetica. Ciò che lui vede in .raw con un certo trasporto emotivo, si trasforma in una saggezza distorta, continuamente tormentata da un’immaginazione che non si ferma mai, che è il ritratto quasi definitivo dello stesso spazio e lo stesso tempo pieno di fluidità, come l’immagine di un fiume che scorre con una furia tale che il suo continuo cambiamento ne delimita la consistenza.

Il suo lavoro nel complesso si presenta come una mostra collettiva, in un’evoluzione talmente costante e rapida da dare forma a un modo alternativo di firmarsi, che non sia basato sulla ripetizione dello stile o sulla ridondanza delle immagini, ma sulla messa insieme di diverse sensibilità. E le fotografie, ancorate ai loro tempi attraverso la chiarezza del presente (oh, molte di queste meravigliose anime non sono più con noi) resistente alla nostalgia, tracciano questo percorso come una scia di meteoriti con una sconsiderata spontaneità, un’individualità basata sui principi della comunità, che questo artista custodisce gelosamente, come anche il profilo estetico della sua stessa creatività.

Canzoni tristi, forse a volte addirittura dolorose, ma cantate con una rovente onestà e con la verità di essere qui; cresciuta nell’esultazione e nell’incessante speranza, una voce solitaria che suona come un coro.

Carlo McCormick in “Se queste fossero canzoni, sarebbero canzoni tristi” (2017)



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